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Perchè scrivo qui e non sui social?

Ho pensato questo spazio come libero e safe, per evitare di trattare argomenti che infiammano le piattaforme social, generando un odio cieco e deleterio. In questo spazio mi sento libero di poter esprimermi, senza la paura di incappare in utenti odiatori che non sono aperti al dibattito democratico, ma che, con acredine incontrollata, dividono il mondo in due parti e insultano quella avversaria. Se sei arrivata qui è perché sei davvero interessata a leggermi. Per questo tengo a un tuo parere e ti invito a scrivermi o qui nei commenti o su Instagram. La sfida che mi pongo è ardua e anacronistica, perchè non siamo più abituati a staccarci dai social e prenderci del tempo più approfondito, ma spero che qualcuno mi segua in questa folla scelta. Grazie e buona lettura.

PS: Chiaramente alcuni articoli saranno disponibili anche sui social, ma non tutti.

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Caro 2020, addio.

  • Immagine del redattore: Gennaro Madera
    Gennaro Madera
  • 19 gen 2021
  • Tempo di lettura: 2 min

Caro 2020,

ci stai abbandonando («finalmente!» – direbbe qualcuno) e io non avrei mai davvero immaginato di dover dare valore felice al 2019. Alla resa dei conti l'avevo congedato con rammarico e goduria, per un anno che non mi aveva dato tanto, anzi, un anno di passaggio, quasi aleatorio, che serviva solo (nel mio vecchio e tragicomico immaginario) ad accogliere – mirabolante e ardente – l'anno che poi ci avrebbe privato di tutto.

Eppure, nel 2019, potevamo ancora camminare per strada e sederci nei locali senza dispositivi sanitari obbligatori addosso. Potevamo scorgere il sorriso o il ghigno di chi condivideva con noi il tempo. Potevamo, persino, abbracciarci (che antico e incauto gesto! – diremmo oggi), suggellando e riscaldando un momento che non aveva bisogno di nient'altro se non di quello. Potevamo andare a scuola e io, potevo essere ospitato dalle scuole – pensate, nelle aule magne! Quelle grandissime dove si stava con più classi, tutti ammucchiati e annoiati, alcuni stremati altri felici.

Nel 2019 potevamo viaggiare nei treni e, insonni e inaspettati, anche poggiare le guance su spalle a volte estranee, e da lì, creare qualcosa di umano e vagante. Potevamo sognare di conoscere nuove nazioni, dormire in ostelli con bagni condivisi, rimorchiare sconosciute sui divanetti imbevuti di alcool cadenti nelle discoteche. Potevamo respirare vicini vicini e correre nei prati verdi dietro a un pallone. Arrabbiarci allo stadio per quella partita che avevamo tanto pagato e aspettato e poi ci aveva tradito. C'erano i cinema una volta a settimana, da soli. E c'erano i cinema dove ci si andava soli e si tornava a casa in due: i gusti cinematografici e teatrali in comune fanno miracoli; tipo farmi condividere i pop corn al caramello e fare chilometri a piedi per giungere a case interperiferiche fingendo di essere «più o meno qualche isolato di là, non ci metto niente a tornare, tranquilla». Nel 2019 non avevamo il timore di incrociare persone per strada. La gente moriva ancora per ipotermia ma meno sola. In Calabria, a Cariati, non c'era ancora l'ospedale e pesava tanto ma un pelo meno di ora.


Caro 2020, volevo ricordarti per un attimo, distratto e ininfluente, tutto quello che ci hai tolto. Ma a qualcosa sei servito: a farci capire che, quando stiamo male, c'è sempre qualcosa di essenziale che possa farci sorridere. Ora io penso a quello che ero. Dal 2021 non voglio niente di ciò che già non conosco, non pretendo promesse.

Aspetto. Aspetto e mi tengo stretto quello che ho.

Ho imparato a farlo quest'anno.

Caro 2020, addio.

Non sei stato un anno da dimenticare, bensì un anno da ricordare. Da ricordare per capire che la distanza è una caria, disumana, ma a volte estremamente necessaria. E che quando non ci resta quasi niente, disperati, rammentiamo a noi stessi di avere qualcosa di splendido e impercettibile: ricordiamoci di avere l'aria. E di che miseria sia non poterla condividere.

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