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Perchè scrivo qui e non sui social?

Ho pensato questo spazio come libero e safe, per evitare di trattare argomenti che infiammano le piattaforme social, generando un odio cieco e deleterio. In questo spazio mi sento libero di poter esprimermi, senza la paura di incappare in utenti odiatori che non sono aperti al dibattito democratico, ma che, con acredine incontrollata, dividono il mondo in due parti e insultano quella avversaria. Se sei arrivata qui è perché sei davvero interessata a leggermi. Per questo tengo a un tuo parere e ti invito a scrivermi o qui nei commenti o su Instagram. La sfida che mi pongo è ardua e anacronistica, perchè non siamo più abituati a staccarci dai social e prenderci del tempo più approfondito, ma spero che qualcuno mi segua in questa folla scelta. Grazie e buona lettura.

PS: Chiaramente alcuni articoli saranno disponibili anche sui social, ma non tutti.

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Favolacce ― Il trionfo del sensazionalismo

  • Immagine del redattore: Gennaro Madera
    Gennaro Madera
  • 15 gen 2021
  • Tempo di lettura: 2 min

Favolacce è un film ansiogeno, lento come il passo di un anziano nella piazza di un paese, logico e tramato come una vendetta che si vorrebbe compiere. Se c'è qualcosa che vince nella pellicola dei fratelli D'Innocenzo è la forma. Favolacce è ansia e disagio puro.

L'acqua che ondeggia simulando un annegamento quando si vorrebbe semplicemente prendere il sole. Le unghie dei piedi con lo smalto divorato dalla noia di una giovane ragazza prena, il ghigno tremante di un padre nervoso. E il silenzio. Favolacce è il silenzio represso dei bambini: il disagio che non si vuole accettare, camuffato dall'eccellenza scolastica. Il tutto vestito, come meglio non si poteva mai nemmeno immaginare, da una colonna sonora da brividi e palpitazioni. È lei l'arma in più, con medaglia d'onore al brano che chiude il film: Passacaglia della vita, nella versione di Rosemary Standlon, Dom La Nena e Birds on a Wire.

Se Favolacce dovesse essere una canzone sarebbe Milano Circonvallazione Esterna degli Afterhours (nonostante sia ambientato in una periferia romana e il romano, è, appunto, la lingua più detta nella pellicola); e le urla disperate di Manuel Agnelli sono i diari che la voce narrante di Max Tortora legge per tutto il lungometraggio. Se Favolacce dovesse essere un libro sarebbe Panino al Prosciutto di Bukowski: sarebbe la cinghiata che il padre dà al buon Hank dopo avergli fatto abbassare i pantaloni, sul corpo nudo, solo per avere ignorato un filo d'erba: la colpa di non averlo potato perfettamente. Quella cinghiata è il calcio che prende Dennis Placido dal padre (interpretato da un crudo Elio Germano) in Favolacce, percossa figlia di una domanda, preoccupata, del bambino: tu e mamma vi volete ancora bene?

I fratelli Fabio e Damiano D'Innocenzo ribaltano ogni singolo crisma di una favola: dai colori (autunnali in estate) al finale. Esattamente e platealmente l'opposto del tutti vissero felici e contenti. A tratti l'opera mi ha fatto apparire per associazione π - Il teorema del delirio di Darren Aronofski (1998), per la sua psichedelia.

Favolacce è poesia perché si mette a nudo: straniando e e disturbando lo spettatore; a partire dal rendere protagoniste le cupe e disperate interiorità di bambini che vorrebbero-ma-non-riescono a comunicare il proprio malessere. E allora fanno. In sordina, in silenzio, di nascosto, ma non troppo; approfittando della superficialità dei propri genitori.

Favolacce è il disagio, l'abbandono, l'incomunicabilità, l'errore, l'invidia, la maschera, l'indifferenza, la crudeltà. L'ostentazione di un simbolo come successo e superiorità (la piscina gonfiabile della famiglia Placido, invidiata da tutto il quartiere) e la finta aggressione per fondare nuovi nervosismi, di cui si è tristemente dipendenti.

Un'opera che fa riflettere, con un semifinale da brividi terrificanti.

Trovate la pellicola, che ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Berlino, su Amazon Prime Video, cliccando sulla locandina.

Attrice rivelazione: Ileana D'ambra: iconica e straziante la scena dove canta disperata Sara di Paolo Meneguzzi in un pub isolato insieme al padre di sua figlia.

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